George Byron | Authentic Venetian

di Pieralvise Zorzi

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La domanda sorge spontanea: per essere Veneziano, autenticamente Veneziano, bisogna per forza essere nati a Venezia?

La risposta è no.

A parte il fatto che alcuni tra i primissimi Dogi erano nati ad Eraclea, Malamocco, Pola e che il grandissimo Andrea Gritti era nato addirittura a Bardolino.

La venezianità, soprattutto oggi, è uno stato dell’anima. Un profondo amore per Venezia vissuto con vitalità ed intelligenza. Anche un non italiano può quindi essere assolutamente veneziano, meglio ancora #AuthenticVenetian.

La prova è George Gordon, sesto barone di Byron.

Palazzo Mocenìgo a San Samuele, del ramo del Doge Giovanni e soprattutto del Doge di Lepanto, Alvise I, è in realtà un formidabile complesso di quattro palazzi. Palazzo Mocenìgo “Casa Nuova”, i due palazzetti identici che costituiscono Palazzo Mocenìgo “Il Nero” e Palazzo Mocenìgo “Casa Vecchia” che in realtà è il più recente.

Qui furono ospiti illustrissimi: Il Vescovo di Winchester, zio di Enrico III di Inghilterra; Emanuele Filiberto di Savoia “Testa di Ferro”; Giordano Bruno, che però fu poi denunciato proprio dal suo padrone di casa Giovanni Mocenìgo; Lady Alathea Arundel, moglie del Lord Marshal di Inghilterra, segretamente coinvolta nel tragico errore politico e giudiziario che portò all’esecuzione ed alla postuma riabilitazione del senatore Antonio Foscarini.

Una foto d'epoca realizzata da Carlo Naya che mostra la facciata prima del pesante intervento che portò al terrazzamento dell'attico

Il palazzo però è ancor più famoso perché è la casa veneziana di George Byron. Arriva nel settembre 1818, accompagnato da quattordici domestici, il valletto personale Fletcher, due scimmie, cinque gatti, otto cani, una cornacchia, uno sparviero, due pappagalli ed una volpe.

Ha appena venduto la sua ancestrale dimora inglese, Newstead Abbey, per l’enorme cifra di 97.500 sterline: può quindi tranquillamente permettersi di pagare un affitto di duecento sterline al mese. È entusiasta di Venezia e delle sue bellezze, non solo quelle architettoniche.

Proprio come Casanova, il poeta è un seduttore irrefrenabile, almeno a giudicare dal dongiovannesco elenco particolareggiato delle sue conquiste che scrive agli amici Hobhouse e Kinnaird. Assolutamente esplicito nei particolari, è un lungo elenco. C’è la cantante Arpalice Tarruscelli, soda e sensuale, la Da Mosti (non ci si faccia ingannare dal nome che suona patrizio, era uso comune per le professioniste vendersi fingendo di essere di alto lignaggio), l’unica che, parole sue, gli avesse dato una gonorrea per la quale non aveva dovuto pagare.

Poi c’è la Spineda, la Lotti, la Rizzato, l’Eleonora, la Carlotta, la Giulietta, l’Alvisi, la Zambieri, l’Eleonora da Bezzi che pare fosse stata l’amante di Gioacchino Murat Re di Napoli e via così, in un subisso di nomi di ogni ceto, come egli stesso, Don Giovanni e Leporello al tempo stesso, racconta.

Gli compare davanti tutta nuda anche Marina Querini Benzòn pretendendo il suo “omaggio”, che lui da vero gentiluomo non le nega, anche se la “biondina in gondoleta” ormai è diventata, come malignavano i gondolieri, uno “stramazzo despontà”, un materasso sfondato. Insomma, si dice che il palazzo abbia due porte: uno per le ragazze di Castello e uno per quelle di Cannaregio.

Tra tutte queste donne arriva però una focosa dittatrice: la famosa Margherita Cogni, la “fornarina”, che gli si piazza in casa, sotto il bel soffitto a cassettoni di Sebastiano Ricci che Göring si porterà via nel ’44. Lei comanda tutti a bacchetta e Byron, che la chiama “the Moor of Venice”, la Mora di Venezia, non riesce a sbarazzarsi di lei e della sua folle gelosia.

Si scatena in una rissa con le unghie e con i denti contro Marietta, il primo amore veneziano di Byron, picchia le donne di casa, intercetta le sue lettere, pretende cappelli piumati ed abiti con la coda e quando Byron riesce a mandarla via fa una scena madre, cercando di accoltellarlo e poi gettandosi in Canal Grande, da cui viene fortunosamente ripescata senza danni.

 

Margherita Cogni in un'incisione del 1817

 

Nonostante le sue follie amorose e le sue nuotate da gran fondista – epica la sua sfida col Console d’Inghilterra Hoppner, un certo signor Scott e l’avvocato Mengaldo su un percorso di sette chilometri dal Lido a Santa Chiara che lui vince in tre ore e tre quarti anche se con qualche trucchetto -  Byron riesce a starsene inchiodato alla scrivania a scrivere tutta la notte, nutrendosi di riso e gin con acqua. 

Scrive il suo Beppo, i due drammi Marin Faliero e I due Foscari, il quarto canto dei Childe Harold’s Pilgrimage, creando così non solo il nome del Ponte dei Sospiri (A palace and a prison on each hand), ma tutta quella visione ottocentesca di Venezia che influenzerà i visitatori che lo seguiranno: Ruskin, Dickens, Henry James, Proust, Thomas Mann, e tutti coloro che arriveranno a Venezia con la guida del Baedeker (lui stesso influenzato da Byron) in una mano e Childe Harold nell’altra.

Nel salotto della Benzòn conosce il suo ultimo amore, Teresa Guiccioli: con lei e il fedele gondoliere Tita Falcièr lascia per sempre Venezia, andando incontro al destino che lo vedrà morire di febbri a Missolungi. Al funerale del poeta ribelle, a Hucknall Torkard, sfilerà un corteo di quarantasette carrozze listate a lutto, tutte vuote.

 

Format grafico a cura di Anna Marchetto

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