From 17 Oct 2022 to 20 Oct 2022
Teatro Stabile del Veneto Carlo Goldoni

Pa'

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Saremo in molti a chiederci anche dopo il centenario quanto attuale rimarrà Pasolini, cosa di lui sarà ancora vivo e cosa ingiallito, cosa ancora portabile e cosa riporre nell’armadio in attesa di tornare in auge come modernariato. Non so dare a questa domanda una risposta se non con questo spettacolo ordito insieme a Luigi Lo Cascio, da tanti anni prediletto compagno di ventura. Si tratta di una cernita nell’opus pasoliniano immenso che non ha certo l’ambizione di dire tutto né fornire il quadro nemmeno abbozzato, ma di scegliere cosa abbiamo scoperto per noi di indispensabile, al punto da riassumerlo nel vocativo con cui lo chiamavano i ragazzi: a Pa’, per invitarlo a tirare due calci di pallone o chiedergli di fare una comparsata in un film.

Io stato uno di quei ragazzi, un contemporaneo, uno che l’avrebbe avuto a portata di mano se non l’avesse da subito considerato un maestro irraggiungibile. Insieme a lui ce n’erano altri – solo per l’Italia vien da pensare a Sciascia, Calvino, Moravia, Eco, Bobbio e tante altre leggendarie figure – ma Pasolini era il preferito. Non tanto per la continua vigilanza sui temi del giorno, quanto per la passione e l’imprevedibilità nel trattarli. Senza contare il Cinema, senza contare la Poesia, dove ritrovavo le stesse provocazioni, gli stessi stimoli, ma come se tutto fosse stato risolto in una Forma, dunque meno doloroso, meno disperato di quanto trapelava negli articoli o nella prosa militante. Quanta rabbia in lui a scrivere, quanta in noi a leggerlo, strana la sensazione di intimità e irritazione, come davanti a un fratello maggiore infinitamente dotato, amatissimo e indisponente. Dopo il suo assassinio non mi sono mai chiesto cosa restasse di lui, mentre me lo chiedevo sempre per i detrattori. La perdita di una formidabile e autorevolissima figura pubblica era sotto i nostri occhi, pazienza con quelli che non l’hanno capito al volo. Per molti fu necessario aspettare l’avverarsi delle “profezie”, il giungere puntuale di ciò che aveva visto da lontano. Ma Pasolini non voleva essere profeta: il suo era un grido di battaglia che avremmo dovuto raccogliere per fronteggiare il declino, anziché trattarlo come un visionario jettatore. Più che la desolata rappresentazione dell’Italia che non c’è più, mi colpisce oggi quanto fosse per lui necessario consumarsi e mettersi a repentaglio, addirittura fisicamente, per poterla decifrare e descrivere. Qualcosa che non riguarda solo l’intelligenza pura, ma il corpo. La carne, il sangue. Lo spettacolo cerca di dar conto proprio di questa sua disperata attualità, senza preoccuparsi troppo di apparire parziale o arbitrario. D’altra parte ognuno ha il suo Pasolini, com’è giusto che sia, e questo non è che il nostro.

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